L’intervento della psichiatra Guendalina Rossi al corso di Viareggio

di Laura D’Ettole.

“La diagnosi di una patologia come la cardiomiopatia ipertrofica è come un terremoto che sconvolge l’equilibrio di chi la riceve e del suo intero ambiente familiare”.

Guendalina Rossi - Viareggio

Dott.a Guendalina Rossi

Ha esordito così, Guendalina Rossi psichiatra e psicoterapeuta, intervenendo al “Corso di formazione per pazienti esperti in malattie ereditarie del miocardio” organizzato da Aicarm a Viareggio (28/1/’23). Il concetto di “paziente esperto” è fondamentale oggi per la comunità scientifica, sottintende che le cure sono tanto più efficaci, quanto più chi le riceve mostra consapevolezza della propria condizione, non solo dal punto di vista clinico, ma anche psicologico. Per questo l’intervento di Guendalina Rossi, incentrato su quel complicato intreccio di accettazione e rifiuto della malattia, era uno dei più attesi dalla platea dei pazienti.

“Ci siamo resi conto che l’impatto della diagnosi è davvero molto differente a seconda dell’età della vita in cui questo avviene” dice Rossi. Bambini, preadolescenti, adolescenti o adulti hanno reazioni molto diverse e fra loro non paragonabili.

I bambini non “sanno come stanno”. “Nascono con certe sensazioni fisiche e crescono con un corpo che funziona in quel modo”. Non hanno termini di paragone. Serve a poco chiedere loro come si sentono, perché non possono esprimerlo. E’ utile invece iniziare un dialogo in cui imparano a descrivere con precisione il loro corpo, le loro sensazioni quando fanno qualcosa. Stimolarli a disegnare, a esprimersi con il gioco. Quando la diagnosi riguarda un bambino, il dolore che sconvolge la coppia dei genitori è acutissimo. “Di chi è la colpa della trasmissione del gene?”, cominciano a chiedersi il padre e la madre. Questo ingombrante segreto, spesso non detto, non può e non deve rimanere un tabù, va portato alla luce. La coppia deve essere aiutata e seguita in questo percorso per far sì che diventi anche un efficace supporto per il figlio.

La cosa è molto diversa quando la diagnosi cade in quell’età della vita in cui i contrasti sono accesi e decisi: l’adolescenza o preadolescenza. Il giovane paziente può mostrare reazioni talvolta imprevedibili che oscillano fra rabbia, ribellione o cupa rassegnazione. In questo caso: “Può essere molto utile che il dialogo fra medico e paziente avvenga in un rapporto a due medico-paziente”. I ragazzi in questa fase stanno sperimentando le prime esperienze di autonomia, di vita adulta, e si riduce molto lo spazio di controllo genitoriale. “I preadolescenti e gli adolescenti passano per un primo periodo di accettazione della diagnosi e anche delle indicazioni terapeutiche”. Ma hanno difficoltà a sottoporsi a limitazioni, come quella di cessare l’attività sportiva a livello agonistico, ad esempio. “Sappiamo che spesso il ragazzo a cui dici di non giocare al calcio in un certo modo, all’improvviso andrà in campo per vedere davvero cosa succede, vorrà provare se quello che gli viene detto è… reale oppure no”. Magari a un certo punto sospenderà i farmaci, e non smetterà mai di voler sperimentare i limiti del proprio corpo. “Per questo la nostra esperienza ci ha insegnato che è molto importante consentire un dialogo diretto col medico in cui trattare varie questioni che possono riguardare la libertà di muoversi, di avere rapporti sessuali e di fare sport, di viaggiare”. O ancora, per quanto riguarda le ragazze, di affrontare il delicatissimo tema della maternità.

Certamente quando ad un paziente, quale che sia la fascia di età, viene detto di cessare l’attività sportiva, modificare le abitudini o inserire un defibrillatore, il terremoto è sconvolgente. “Quello che sta accadendo corrisponde a un lutto, alla perdita della fantasia che noi tutti abbiamo, di avere un corpo perfetto, una condizione di invulnerabilità”.

Guendalina Rossi ricorda le fasi riconoscibili della risposta allo shock della scoperta della malattia. C’è un primo stadio in cui si dice no, non può essere vero, questa cosa non è vera! È la negazione di un’evidenza che non si intende accettare. Poi segue la fase in cui si è molto arrabbiati, risentiti perché non si può perdere quella condizione di benessere a cui siamo abituati. “C’è poi il momento della contrattazione, sì mi piace questa parola, inizia una fase di contrattazione, un periodo di depressione, quindi una condizione di tristezza, un po’ di nostalgia per quello che abbiamo perso e, quando va bene, arriva l’accettazione”. L’accettazione sì, che naturalmente non significa contentezza per questo nuovo status, “ma che il paziente riesce ad inglobare questa novità nella propria esistenza e ricostruisce un nuovo equilibrio che tenga conto del fatto di avere una malattia che diventa la tua compagna di vita”. Una compagna per sempre e dalla quale non si divorzierà mai.  Si firma un armistizio con lei, si fa una pace che consenta di accettarla e di condurre una vita vivibile, anche piacevole.