L’Angelo Custode che mi porto nel petto
di Valerio Pelini
Due vite segnate dalla cardiomiopatia
Ci sono due vite, per me. Quella prima della morte di mio fratello, e quella dopo. Trent’anni fa, la sua scomparsa improvvisa non si portò via solo lui, ma anche le mie certezze. Fu come un tuono in un giorno di sole, e l’eco di quel tuono mi portò dritto in un ambulatorio di cardiologia. La diagnosi fu un pugno leggero ma costante: cardiomiopatia ipertrofica. Una parola complessa per dire che il mio cuore portava la stessa ombra di quello di mio fratello.
È in quel momento che ho conosciuto un cardiologo esperto, per me è diventato subito “il prof”, l’amico che mi ha preso per mano e mi ha detto, senza giri di parole: “Valerio, da qui in poi camminiamo insieme”. E lo abbiamo fatto per trent’anni. Spero proprio di averlo a fianco anche per i prossimi trenta anni.
L’angelo custode nel petto: il defibrillatore sottocutaneo
Un decennio fa, durante uno dei nostri controlli, dopo un Ecg dinamico prolungato che aveva mostrato aritme ventricolari considerate pericolose, mi guardò e disse: “Che ne dici se ti diamo un angelo custode?”. Non usò esattamente queste parole, ma l’idea era quella. Un defibrillatore sottocutaneo. Preventivo. Come diciamo nella mia amata Toscana, “meglio aver paura che buscarne”. Non era una scelta dettata dal panico, ma dalla fiducia. Dissi di sì.
L’intervento fu eseguito a Pisa, allora diretto dalla Dr.ssa Bongiorni, e fu breve. Le prime settimane sentivo quel piccolo dispositivo sotto la pelle come un corpo estraneo, un promemoria costante della mia fragilità. Poi, lentamente, è diventato parte di me. Un compagno silenzioso che non mi ha mai dato un vero fastidio, se non per quel rinnovo annuale della patente che è un bel rompimento, e per la necessità di saltare i metal detector in aeroporto. “Ho un dispositivo medico”, dico a bassa voce all’addetto, che mi fa un rapido controllo manuale mentre gli altri passeggeri sfilano via. Un piccolo prezzo per la tranquillità.
Per dieci anni, il mio angelo custode ha dormito. Non è mai dovuto intervenire. Ma non è rimasto inattivo.
Il monitoraggio remoto: un cuore che parla a distanza
Una volta a settimana, compio un piccolo rito. Prendo una scatoletta bianca che mi hanno dato a Pisa, mi ci siedo davanti e in pochi minuti il mio cuore “parla” con l’ospedale. È il “monitoraggio remoto”. Per anni è stata solo una routine, un gesto di pochi minuti prima del caffè. Finché, cinque anni fa, il telefono squillò
“Pronto, signor Pelini? Chiamiamo dalla cardiologia di Pisa”. Il cuore, quello vero, perde un colpo. Una telefonata dall’ospedale non porta mai buone notizie. “Non si allarmi”, disse una voce calma dall’altro capo, “il suo dispositivo ha registrato alcuni episodi di fibrillazione atriale. Una brutta bestia, ma l’abbiamo identificata in tempo”.
Una brutta bestia, sì. Una di quelle che può provocare ictus, cioè embolia e di conseguenza ischemia , di solito cerebrale. Il mio angelo custode non aveva dormito, aveva vegliato. Aveva visto il pericolo prima che potesse farmi del male e aveva dato l’allarme. Chiamai subito il prof. La sua voce, come sempre, trasformò la paura in un piano d’azione: un anticoagulante subito, e poi di nuovo a Pisa per un’ablazione, un piccolo intervento per eliminare la causa del problema.
Sanità che funziona: fiducia, prevenzione e cura
Oggi sono qui, a 74 anni, e vi racconto questa storia non per parlare della mia malattia, ma della mia fortuna. La fortuna di vivere in un Paese dove un “angelo custode” tecnologico non è un lusso per pochi. Dove un professore ti prende per mano per trent’anni. Dove un allarme invisibile, lanciato da una scatoletta bianca, ti salva la vita senza che tu te ne accorga. Tutto questo, senza spendere una lira.
Sentiamo sempre parlare di malasanità, perché il rumore di un albero che cade è più forte di quello di una foresta che cresce. La mia, invece, è una storia silenziosa di sanità che funziona. Una foresta che cresce e che abbiamo il dovere di proteggere.
