I diritti del paziente, i doveri del medico

Intervista all’avvocata Elisabetta Renier

di Francesca Conti

L’avvocata di AICARM Aps Elisabetta Renier chiarisce i diritti del paziente e puntualizza gli aspetti legali fondamentali del rapporto fra paziente e medico.  E’ necessaria  un’informazione chiara, completa e comprensibile in modo che il paziente possa fare scelte consapevoli. La comunicazione diventa essenziale nel momento di decidere interventi che hanno per esempio un forte impatto psicologico come il convivere con un defibrillatore impiantato. Il paziente ha il diritto di rifiutare l’impianto o, una volta inserito, anche di chiederne la rimozione. Sta al medico assicurarsi che abbia compreso le conseguenze di questa decisione.

Partiamo dalle basi: quando si parla di malattia, dove comincia il diritto del paziente?

Direi che tutto comincia dall’informazione. Il paziente ha il diritto, anzi, direi il bisogno, di sapere esattamente cosa sta affrontando. Che si tratti di una diagnosi generica o di un problema specifico come la cardiomiopatia, l’informazione deve essere chiara, completa, comprensibile. Solo così può esprimere un consenso informato, che non è una semplice firma su un foglio, ma una scelta consapevole.

Il consenso informato è molto più che un modulo da firmare.

È un processo, un dialogo, una decisione condivisa tra medico e paziente. Deve essere libero, specifico, revocabile in qualsiasi momento. E deve fondarsi su un’informazione adeguata, comprensibile, aggiornata. Senza una corretta informazione, il consenso è viziato, quindi giuridicamente nullo.

Che ruolo ha il medico in tutto questo?

Un ruolo centrale. È lui a dover costruire questo ponte comunicativo. Deve fare uno sforzo per tradurre il linguaggio tecnico in parole che il paziente possa capire, spiegare la diagnosi, la prognosi, i rischi, i benefici e le alternative terapeutiche. Anche quando non ci sono alternative, è un’informazione che il paziente ha diritto di ricevere. L’idea è quella di coinvolgerlo davvero nelle decisioni, non solo in apparenza.

Ci sono situazioni in cui questa comunicazione può essere più difficile?

Molte. A volte si ha a che fare con pazienti molto anziani, o con difficoltà cognitive. In altri casi, la barriera è semplicemente culturale o linguistica. Ma il medico deve cercare sempre di colmare quel gap. Deve anche saper valutare se chi ha di fronte è realmente in grado di comprendere e di decidere. Non basta che una persona dica “ho capito”, se poi non è in grado di spiegare cosa ha compreso. Il medico ha il dovere di verificare, con attenzione e sensibilità. E nei casi in cui il paziente non sia capace di intendere e di volere – pensiamo a minori o persone con gravi disabilità – sarà un tutore legale a fornire il consenso, sempre nel miglior interesse della persona assistita.

E se il paziente non vuole sapere?

Anche quello è un diritto. Ma dev’essere un rifiuto espresso, consapevole. Nessuno può essere costretto a ricevere informazioni, così come nessuno può essere escluso da esse senza autorizzazione. Se si vuole delegare qualcuno a ricevere le informazioni – un familiare, ad esempio – ci vuole un’autorizzazione specifica. La privacy non è un dettaglio.

Quali sono i doveri del medico in questa relazione?

Innanzitutto, rispettare la dignità e la libertà del paziente, senza discriminazioni. Poi, garantire la salute psicofisica della persona, che include anche la gestione del dolore, se possibile. Deve agire con competenza, aggiornarsi costantemente, e non avere come fine il guadagno. La medicina non è un’impresa commerciale. Il compenso è legittimo, certo, ma il fine dev’essere sempre la cura. E ovviamente, è vincolato dal segreto professionale.

Quali sono i diritti del paziente, oltre al consenso?

Ha diritto a un trattamento personalizzato, ad accedere alle informazioni che lo riguardano, a scegliere il medico o la struttura, nei limiti del possibile. Ha diritto alla sicurezza, alla privacy, e – se qualcosa va storto – anche a essere risarcito. Ha diritto a essere ascoltato, a non soffrire inutilmente, a non subire accanimenti terapeutici. E, cosa fondamentale, a partecipare attivamente alle decisioni che lo riguardano.

Torniamo al caso specifico della cardiomiopatia e del defibrillatore: cosa cambia rispetto al quadro generale?

Nulla in termini di principi, ma molto in termini di complessità. Quando si parla di dispositivi impiantabili, come un defibrillatore, il paziente deve essere messo di fronte a tutte le implicazioni: benefici, rischi, alternative, eventuali costi non coperti dal Servizio Sanitario. È fondamentale che il paziente sia pienamente consapevole della scelta che sta per fare. Perché qui non si tratta solo di una cura, ma di una trasformazione importante della propria quotidianità.

Quali informazioni deve ricevere un paziente prima di accettare l’impianto di un defibrillatore?

Innanzitutto, la motivazione clinica dell’intervento: perché è necessario, quale rischio si vuole prevenire, quali sono le prospettive di sopravvivenza e di qualità della vita. Poi, la procedura chirurgica in sé, che prevede anestesia, tempi di recupero, possibili complicazioni immediate o a lungo termine.

Deve sapere che il dispositivo richiederà controlli periodici, ad esempio per monitorare la batteria o verificare il corretto funzionamento. Deve anche essere informato su eventuali limitazioni nella vita quotidiana, come l’interferenza con apparecchiature magnetiche.

Espianto defibrillatore

Ci sono anche aspetti psicologici da tenere in considerazione?

Assolutamente. L’impatto psicologico di convivere con un defibrillatore impiantato non va sottovalutato. Alcuni pazienti sviluppano ansia, paura, o senso di fragilità. È importante offrire un supporto psicologico per accompagnarli in questo cambiamento di vita e renderli partecipi del percorso di cura, anche dal punto di vista emotivo.

Il paziente può rifiutare il defibrillatore o chiedere di rimuoverlo successivamente?

Sì, il consenso è sempre revocabile. Il paziente ha il diritto di rifiutare l’impianto o, una volta inserito, anche di chiederne la rimozione. Naturalmente, il medico ha il dovere di assicurarsi che il paziente abbia compreso le conseguenze di questa decisione.

Non si può accettare né rifiutare una procedura medica se prima non si conoscono tutti i rischi, le alternative e le implicazioni. Questo vale per l’impianto come per la rimozione. Anche qui, la consapevolezza è l’elemento centrale.

Esistono situazioni d’urgenza in cui il consenso non è richiesto?

Sì. In situazioni di urgenza e pericolo di vita immediato, come può essere un arresto cardiaco improvviso, il medico ha il dovere di intervenire per salvare la vita del paziente anche senza consenso, se questo non può essere espresso tempestivamente.

Se ad esempio l’impianto di un defibrillatore è necessario in seguito a un arresto cardiaco e il paziente non è cosciente o non ci sono familiari disponibili in tempi rapidi, il medico può agire in uno stato di necessità. Ma una volta superata l’emergenza, sarà poi il paziente – quando torna in grado di intendere – a decidere se
continuare o meno con quel trattamento.

Quindi possiamo dire che, al centro di tutto, c’è il rapporto di fiducia tra medico e paziente?

Esattamente. Tutto ruota attorno a questo rapporto, che deve essere fondato su rispetto reciproco, trasparenza e responsabilità condivisa. Il medico non è solo un tecnico, è un interlocutore, una guida. Il paziente non è un soggetto passivo, è parte attiva del percorso. Solo così si può garantire un’assistenza davvero efficace, rispettosa, umana. Alla fine, l’obiettivo comune è uno solo: la salute del paziente. E questa si costruisce, prima di tutto, comunicando.