Il Cuore delle donne
di Francesca Conti
Farmaci, la nuova percezione del rischio nella donna
Professoressa, vorrei cominciare con il chiederle se c’è una differenza nell’efficacia terapeutica dei farmaci cardiovascolari tra donne e uomini.
E per quanto riguarda il sesso femminile?
Ci sono differenze anche nelle fasi della vita?
Durante ciascuna di queste fasi la risposta ai farmaci può essere molto differente. Il problema non è solo capire che si è di fronte a una persona di sesso femminile, ma anche capire in che fase della vita questa persona si trova, perché questo può cambiare profondamente il tipo di terapia da impostare. Se pensiamo a una donna di 80 anni, ci rendiamo conto che è diminuita la massa muscolare, è spesso di peso inferiore rispetto a quando era più giovane, ha una funzione renale ridotta – questo succede anche negli uomini. Quindi il dosaggio di alcuni farmaci che hanno un’eliminazione renale va drasticamente ridotto per non incorrere in tossicità.
Tornerei sulla questione degli studi clinici che ha accennato. Nella ricerca clinica le donne sono ancora sottorappresentate o è una problematica ormai superata?
Quali sono le ragioni di questa sottorappresentazione?
È anche un problema legato al fatto che quando alcuni studi includono la fascia d’età tra i 18 e i 50 anni, per esempio, le donne rappresentano per chi sta facendo lo studio clinico un problema maggiore. Questo è anche comprensibile perché per certi farmaci bisogna assicurarsi che la donna intraprenda una terapia contraccettiva adeguata: non si può correre il rischio che durante lo studio clinico la donna abbia una gravidanza, perché questa potrebbe comportare rischi in particolare per il feto, soprattutto se non si sa se il farmaco ha effetti teratogeni.
C’è quindi una fase della vita – quella pre-menopausale – che rappresenta un potenziale rischio e quindi una sottorappresentazione delle donne. In questa fase le donne normalmente hanno un rischio cardiovascolare inferiore rispetto agli uomini, però bisogna capire se questo rischio effettivamente minore è reale o meno, perché dipende dalle caratteristiche individuali: la donna è fumatrice? È obesa? È ipertesa? Ha caratteristiche di rischio familiare? Non è detto che non sia a rischio ugualmente. Il problema è che una sottorappresentazione, se si prende tutto l’arco della vita delle donne negli studi clinici, tuttora esiste. È difficile probabilmente arrivare al 50-50%, però l’obiettivo è quello indubbiamente, perché il rischio cardiovascolare nelle donne sta raggiungendo quello degli uomini. Il motivo è che l’esposizione a fattori ambientali o a stili di vita simili sta aumentando.
Su temi di questo tipo, la formazione dei futuri medici sulla medicina di genere applicata alla farmacologia è adeguata?
Decisamente molto più di prima. Adesso ci sono sia corsi ad hoc – possono essere anche corsi a scelta, di didattica integrativa o elettiva – e comunque lo si fa anche nelle lezioni del corso somministrato a tutti gli studenti e studentesse. Argomenti di farmacologia di genere sono sempre affrontati: facendo riferimento a una certa classe di farmaci, viene sempre riportato se è rilevante il diverso rischio a cui può incorrere una donna rispetto a un uomo.
Si trattano anche temi come la diversa percezione del rischio nella donna. È stato da poco pubblicato uno studio in Svizzera che ha dimostrato che se una donna e un uomo vanno al pronto soccorso con una sintomatologia che potrebbe far pensare a un infarto, è molto più probabile che l’uomo venga ricoverato rispetto alla donna. Sappiamo che la sintomatologia può essere diversa, la donna ha una serie di sintomi diversi rispetto all’uomo ed è anche psicologicamente meno pronta a riconoscerli. Di conseguenza è possibile che non venga trattata in maniera altrettanto efficace.
Viene riportato il rischio legato, per esempio per gli anticoagulanti, al fatto di essere sottopeso o sovrappeso, la diversa distribuzione del grasso corporeo, il rischio di alcuni farmaci di dare aritmie, il rischio di interazioni farmacologiche con estrogeni o progestinici. Quando ci sono questi argomenti, noi li trattiamo sempre.
Ha accennato alla farmacologia in gravidanza. Può approfondire questo tema?
Ad agosto di quest’anno sono state pubblicate le nuove linee guida su ‘malattie cardiovascolari e terapie’ in gravidanza e allattamento dalla Società Europea di Cardiologia. Ho collaborato con questo gruppo multidisciplinare per la parte dei farmaci, alla lista completa di tutti i farmaci: quali si possono usare, quali sono completamente controindicati e così via.
È un lavoro complesso che sicuramente proseguirà negli anni, perché il problema è che per molti farmaci non abbiamo dati in gravidanza. Per moltissimi farmaci, esclusi quelli che per certo si sa che danno malformazioni fetali o rischio di aborto, semplicemente non ci sono dati sufficienti. Ci sono dati per donne esposte casualmente ai farmaci, oppure perché empiricamente si sono utilizzati e quindi si sono raccolti i dati da un punto di vista epidemiologico.
Lo studio di un farmaco in gravidanza non solo è molto difficile, ma in alcuni casi può essere anche eticamente discutibile. Sulla base dei dati che si possono ottenere dalla letteratura scientifica, soprattutto dagli studi osservazionali, sono state stilate delle tabelle per gravidanza e allattamento in cui si dice quali sono i farmaci cosiddetti di prima scelta – cioè quelli che ormai hanno dimostrato efficacia e sicurezza sia per la madre che per il feto – e la stessa cosa per l’allattamento.
Perché questo tema è così importante oggi?
Questo è un tema sempre più importante perché quando le donne avevano figli tra i 18 e i 30 anni, i rischi cardiovascolari erano prossimi allo zero. Adesso che molte donne si spingono oltre i 35-40 anni, il rischio di avere una donna che ha già un prediabete, è già ipertesa, ha dislipidemia, è obesa, ha un rischio cardiovascolare che aumenta ed è francamente elevato.
Poi naturalmente ci sono le donne a elevato rischio – quelle che si sa già hanno un rischio elevato in gravidanza per alcune patologie, come ad esempio le Cardiomiopatie – che sono trattate da un team multidisciplinare che affronta tutti i vari problemi, compreso quello dei farmaci. Alcuni farmaci in gravidanza per il rischio fetale che comportano non possono essere utilizzati.
Ci sono situazioni particolarmente critiche?
Ci sono ormai pochi casi estremi. Per esempio, le donne con trapianti possono avere una gravidanza dopo un anno dal trapianto, non è più controindicato. Però c’è una condizione in particolare che si chiama ipertensione polmonare, in cui il rischio di mortalità è veramente molto alto e quindi la scelta di una donna di andare incontro a una gravidanza è obiettivamente coraggiosa.
Per quanto riguarda l’allattamento, alcuni farmaci che non sono utilizzabili in gravidanza sono utilizzabili durante l’allattamento, alcuni farmaci che si possono usare in gravidanza sono sconsigliati durante l’allattamento. Si sostituisce il farmaco con un altro, ma l’indicazione è sempre di non scoraggiare mai la donna dall’allattare il proprio bambino. Quindi, laddove è possibile, a meno che non ci sia una terapia assolutamente salvavita per la donna controindicata per l’allattamento, l’indicazione è sempre quella dell’allattamento.
C’è qualcos’altro che ritiene importante sottolineare?
Vorrei aggiungere che noi stiamo parlando qui di ricerca clinica, che è indubbiamente molto importante, a cui si arriva però dopo anni di ricerca preclinica, cioè quella fatta in laboratorio sulle cellule o su animali (es. topi). Anche sulla ricerca preclinica è importante avere studi che mettano a fuoco il diverso sesso, perché anche le cellule possono avere un patrimonio genetico maschile o femminile, e così anche gli animali su cui si fanno i primi studi prima di arrivare allo studio clinico. È molto importante questo aspetto, spesso sottovalutato, ma con risultati eccellenti.
Stavo guardando un lavoro pubblicato adesso da una collega dell’Università di Firenze molto brava, Paola Romagnani, che ha pubblicato un lavoro molto importante su Science, andando a intercettare un nuovo meccanismo in una complicanza potenzialmente grave della gravidanza, la pre-eclampsia.
Studi di questo genere che individuano nuovi bersagli terapeutici prettamente legati a fasi della vita della donna – in questo caso una malattia in gravidanza come la pre-eclampsia o l’eclampsia – sono di fondamentale importanza. È uno studio condotto su animali, su modelli sperimentali, e questo secondo me è un messaggio che bisogna dare: incoraggiare studi di genere anche di tipo preclinico.

